"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

23 gennaio 2017

Una Chiesa aperta in tutta la sua ricchezza a tutti i popoli di tutti i continenti

By La Stampa - Vatican Insider
Giovanni Tridente

Il Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, in questa lunga intervista concessa a Palabra, offre il punto della situazione sulla fede delle giovani Chiese nelle terre di missione e di come la loro vitalità può tradursi in uno sprone per tutta l’Europa. Ci parla con assoluta lucidità e competenza del Medio Oriente, da una prospettiva storica ma anche con grande speranza per il futuro di quei territori e delle minoranze che li abitano, oggi tristemente martoriati dalle guerre. Ci racconta del bisogno di prossimità e dell’essere sempre di più una «Chiesa in uscita», che Papa Francesco ha incarnato in tutto il suo pontificato. Infine, analizza il ruolo e le competenze della Congregazione da lui guidata, nell’ottica di un pieno e consapevole servizio alla missione evangelizzatrice di tutta la Chiesa. Il ritratto che ne emerge, come lui stesso afferma, è quello di una Chiesa «aperta in tutta la sua ricchezza a tutti i popoli di tutti i continenti». 

LA FEDE DELLE GIOVANI CHIESE  

Eminenza, qual è la situazione generale della Chiesa nelle terre di missione?  
«Di generale si può dire che soprattutto in Africa e in Asia si tratta di Chiese quasi sempre giovani. Al tempo del Concilio le chiese locali erano ancora rette dai nostri missionari, e l’evangelizzazione si trovava in pieno sviluppo. Oggi, a distanza di cinquant’anni, si può affermare che quasi tutte le Diocesi di quelle terre sono rette da clero autoctono e quindi c’è la piena responsabilità di queste persone sulle loro Chiese locali. Se dovessimo evidenziare dei problemi, questi vanno rintracciati nelle difficoltà tipiche di ogni crescita: da una parte troviamo un grande entusiasmo, ma ci sono anche problemi in ordine alla stabilità. Evidentemente, siamo ancora nella fase del primo annuncio del Vangelo. Come Congregazione abbiamo in considerazione questo rapido cambiamento, che coinvolge non soltanto l’aspetto spirituale ma lo sviluppo integrale di questi territori».
Quale parola particolare porta con sé quando visita questi territori?  
«Non c’è una parola particolare che uno ideologicamente deve portare. Molto dipende anche dalla realtà che andiamo a visitare. Per cui, l’annuncio è di tipo reale, nel contesto della grande realtà della Chiesa, del Concilio Vaticano II, dello sviluppo successivo attraverso i grandi Papi che abbiamo avuto fino al momento presente. Si tratta di far sentire queste Chiese particolari come parte del tutto della Chiesa, chiamandole alla corresponsabilità per il loro stesso futuro ma anche come partecipazione alla grande missione della Chiesa. È importante che una Chiesa abbia sempre coscienza di sé e si domandi il tipo di futuro che vuole per il paese in cui si trova. Ciò che per me conta è stimolare queste Chiese ad avere un ruolo attivo all’interno dell’evangelizzazione e del loro sviluppo. Sono loro ormai che devono evangelizzare, non ci sono più i missionari che giungono da fuori… Ciò porta evidentemente a un’assunzione di responsabilità, e dovremmo farlo tutti. La stessa cosa dovremmo chiederci in Europa: che Chiesa vogliamo e perché?».
A proposito, cosa ha da imparare l’Europa da queste altre esperienze?  
«Mi ha sempre colpito quell’espressione che Papa Benedetto XVI ebbe a dire durante i suoi viaggi per esempio in Africa, e che poi anche Papa Francesco ha fatto sua: la gioia della fede della gente di queste terre. Nonostante il livello e il tenore di vita non facile, e comunque non all’altezza di quello europeo, riescono a dare una manifestazione della propria fede in un modo gioioso. Sempre Benedetto XVI diceva che spesso la nostra fede sembra un po’ triste, da persone rassegnate… Invece, in questi altri Continenti, soprattutto in queste giovani Chiese, si percepisce un grande entusiasmo, una grande vivacità. Sono aspetti che noi forse abbiamo perduto. Allora, occorre riscoprire il senso di una fede gioiosa, di una fede partecipata».
Si parla spesso di profughi e rifugiati. Cosa manca da parte della comunità internazionale in questo ambito?  
«Ritengo che il Papa già in molte circostanze e modi ha indicato quali siano le carenze fondamentali, per cui non potrei dire nulla di eccezionalmente diverso. Ciò che manca è ancora la capacità di riuscire a comprendere, quando si tratta di profughi e rifugiati, quali siano le loro reali esigenze. Non si tratta di numeri, sono persone, e alle loro spalle hanno veramente situazioni di grandi difficoltà. Quando guardo negli occhi una persona, un profugo, un rifugiato, poiché è una persona e non un numero, non posso restare indifferente. Dobbiamo quindi imparare ad avere un approccio che non sia di paura, di condizionamenti e luoghi comuni che a loro volta generano paura e creano difficoltà, e guardare di più negli occhi le persone». 

Lei è stato inviato personale del Santo Padre in Iraq, dove è stato anche Nunzio. Cosa succede in quelle terre?  
«Volendo semplificare, potrei dire questo: l’Iraq è una terra antica, ricca di culture, di storia, di lingue, ma in quanto Paese è relativamente giovane, con poco più di novant’anni di vita, tracciato da Occidentali che si sono divisi le zone di influenza dell’impero ottomano collassato. Non è dunque l’espressione di un popolo, ma di molti popoli con culture tanto diverse, che si sono ritrovati, in certi confini determinati, a manifestare una visione nazionale che bisognava però costruire. Questa costruzione è stata molto difficile e non si è neppure raggiunta. La presenza di varie entità, a partire da quelle più grandi, gli sciiti, i sunniti, i cristiani, i curdi e altre minoranze antichissime però numericamente più limitate non si è amalgamata, non ne è nato un unico sentimento e ha dominato chi aveva il potere».Vede qualche soluzione?«È chiaro che quando si parla di democrazia non la si può imporre. Poi quale democrazia? È difficile, perché le culture e i modi di concepire le comunità sono diversi. Anche la cosiddetta democrazia numerica è rischiosa, perché indica che una maggioranza può dominare una minoranza anche consistente e imporre cose che generano insoddisfazione se non lotta. In un territorio composito come l’Iraq non si può pensare di uniformare tutto in modo semplicistico, bisogna dare adito a quella entità nazionale che certamente bisogna far crescere, ma occorre rispettare anche le entità particolari. Si tratta di superare una visione predominante sugli altri, e ciò richiede molto aiuto e tanta buona volontà».
Nel suo ultimo libro «La Chiesa in Iraq» lei parla di una «Chiesa eroica»...  
«È la storia della Chiesa caldea, della Chiesa assira che lo rivela… Dal momento della sua creazione con l’evangelizzazione apostolica, essendo sempre stata una terra di confine, è diventata a sua volta terra di conflitto: a seconda dei poteri che si confrontavano, i cristiani diventavano oggetto di contrapposizione ed erano quelli che soffrivano di più. Sin dai primi secoli, dunque, la religione è stata sostanzialmente un elemento discriminante, e lo stesso è accaduto nei secoli successivi con le diverse invasioni. Questa Chiesa d’Oriente, che si è riversata soprattutto verso l’Asia Centrale e l’Estremo Oriente fino a contare addirittura 20 sedi metropolitane e decine di sedi vescovili fino alla Cina e a Pechino, poi è stata completamente cancellata. Anche queste sono storie di sofferenze, per non dire quelle più recenti. È tutta una scia di sofferenze che mi ha portato a scrivere questo libro». 

LA SPERANZA PER IL MEDIO ORIENTE  

Quale contributo i cristiani possono ancora dare rispetto ai conflitti e alle guerre?  
«Papa Francesco lo ha indicato molto bene. Il cristiano, per esempio, non pensa che la prima cosa da fare quando uno Stato ha delle ricchezze, che sono parte della vita di un popolo, sia quella di comprarsi armi. Un altro atteggiamento è quello di non vedere le relazioni tra Stati solamente in termini conflittuali; è la conflittualità, infatti, che porta ad armarsi, e quando si ha un’arma si è disposti a usarla. Un terzo aspetto riguarda il diritto: gli altri che sono diversi da una maggioranza o da una minoranza, non sono persone con le quali confrontarsi al livello del più forte: in quanto membri di una realtà umana, sociale e politica hanno il diritto di vivere e professare ciò in cui credono, che può essere un ideale, una fede, una libera professione, ma anche un modo di coordinarsi o organizzarsi. Fin quando non entreremo in questa prospettiva, avremo sempre conflittualità. Dopotutto, la visione del cristiano non è diversa da quella che anche a livello di sano pensiero sociale si ha nel mondo. Ma con una carica in più, secondo cui il rispetto dell’altro, il valore e la sua importanza è un aspetto profondamente cristiano, ed è l’insegnamento che ci viene anche dalla fede».
Come vede il futuro del Medio Oriente?  
«Non ho la sfera di cristallo, ma voglio parlare di un auspicio, anche per il Medio Oriente, che è una terra composita di popoli, culture e civiltà. Perché non dovrebbe essere possibile trovare una convivenza fondata sul rispetto dell’altro, sul diritto e sullo sviluppo dei popoli? Perché far prevalere sempre elementi di tipo religioso, d’intolleranza verso un altro popolo, un altro gruppo… Questa mentalità deve essere assolutamente superata, altrimenti la conflittualità rimarrà latente. L’auspicio è che si passi a questa visione diversa, che coinvolga non solo paesi diversi tra di loro ormai presenti in queste terre, ma anche le grandi entità in cui si crede, a cominciare dall’Islam e dal Cristianesimo».
Le terre di missione sono anche un grande bacino - è brutto dirlo - di martirio cristiano? Cosa abbiamo da imparare da queste testimonianze?  
«A proposito di martirio, noi come Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli attraverso l’Agenzia Fides pubblichiamo ogni anno delle statistiche; per esempio, nel 2015 sono stati uccisi almeno 22 operatori pastorali tra sacerdoti, religiosi, laici e vescovi; dal 2000 al 2015 nel mondo i martiri sono stati quasi quattrocento, tra cui 5 vescovi. È quasi impossibile che l’annuncio della fede a volte non richieda anche il sacrificio della propria vita. Questo ce lo dice Gesù nel Vangelo: “se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi”. L’annuncio del Vangelo è sempre scomodo, al di là anche delle vite umane. La fede stessa a volte è oggetto di martirio, per ciò che annuncia, per la giustizia che richiede, per la difesa dei poveri…». 

LA CARITÀ CHE SI FA PROSSIMITÀ 
Uno dei motti del pontificato di Papa Francesco è di una «Chiesa in uscita»; come vivere questo dinamismo?  
«Non solo il Santo Padre parla di Chiesa in uscita, ma è lui stesso a mostrare cosa questo significhi. Veniamo da un anno così importante come il Giubileo della Misericordia e il Papa ci ha fatto vedere come egli, quasi come un grande parroco di tutta la Chiesa, intende per questo dinamismo. Ciascuno di noi è quindi chiamato a tradurlo a seconda del compito che svolge nella Chiesa. Come Prefetto di questa Congregazione ritengo che siamo in uscita nel momento in cui ci facciamo prossimi a tutte quelle situazioni che incontriamo nelle varie Diocesi, e non solo nel servizio che reciprocamente rendiamo noi a loro, ma anche che loro stesse rendono alla realtà ecclesiale universale».
Come sono percepiti «Roma» e il pontificato di Papa Francesco da terre lontane?  
«Quando viaggio vedo che c’è un grande amore. In America Latina, per esempio, si percepisce una presa di coscienza rispetto al fatto che ciò che il Papa comunica e manifesta è frutto di una profonda esperienza di vita che proviene da quello stesso Continente. Ugualmente accade in Africa: la gente è profondamente ammirata da questo modo con cui il Papa interpreta la sua visione pastorale di sacerdote, di vescovo, di Papa, verso tutti e senza confini. Anche in Continenti che sono culturalmente diversi c’è una profonda ammirazione. Non lo dico per piaggeria, ma forse chi non ama molto questi aspetti magari ne vede delle problematiche. Non dimentichiamo che anche davanti a ciò che Cristo faceva, un’opera buona per esempio, c’era chi lo amava e chi invece lo disprezzava». 

IL SERVIZIO ALL’EVANGELIZZAZIONE  

Qual è lo «stato di salute» della sua Congregazione come organismo della Curia Romana?  
«È doveroso essere sempre nella piena sintonia. La nostra Congregazione non esiste in quanto organismo ma in quanto strumento per la sollecitudine del Papa in ordine all’evangelizzazione. Questa è la finalità alla quale noi aderiamo pienamente e per la quale esistiamo: essere veramente diaconia, servizio, nelle mani del Papa e delle Chiese territoriali per la loro crescita».
Spesso Propaganda Fide è percepita come un grande ente di potere che muove molti capitali; cosa risponde?
 
«Non so se c’è un mito intorno a questa realtà. Non possiamo negare che i fedeli nel corso dei secoli hanno sempre visto l’opera missionaria come qualcosa che gli appartiene e hanno voluto in qualche modo parteciparvi. Chi non ha potuto farlo personalmente ha sostenuto quest’opera materialmente, lasciando i propri beni. Noi abbiamo un compito, ed è quello di una buona, sana e trasparente amministrazione di questi beni. La questione non riguarda la quantità ma la finalità che abbiamo, e questa ha a che fare con lo sviluppo della Chiesa missionaria in tutte le sue forme, da quella umana, a quella culturale, sociale, evangelica, fino a quella in cui c’è bisogno di provvedere un buon edificio, una buona scuola, un buon dispensario e via dicendo».
Nei primi mesi del Pontificato lei andava spesso a dare lezioni al Papa - si è detto – sulla «Chiesa missionaria»; come ha vissuto quei momenti?  
«Continuo ad andare e continuo ad avere quei rapporti che il mio ufficio mi impone di avere con il Santo Padre. Fu il Papa stesso, con quel suo umorismo simpatico a dire “ecco il Cardinale che mi dà lezioni”, ma io non dò lezioni a nessuno. Il Papa giustamente considerava necessario per lui iniziare ad avere più familiarità con gli ambienti dell’Africa o dell’Asia. E ciò è un aspetto importante, perché dimostra come il Papa entra in questo dialogo con le realtà di una sua Congregazione, per dare poi un’adeguata risposta ai bisogni della Chiesa. L’elemento di stima e di relazione rimane fondamentale».
A che punto sono i rapporti con il continente asiatico in generale?
 
«Ritengo che il Papa Santo Giovanni Paolo II, quando ha voluto il Sinodo straordinario per l’Asia, abbia ben tracciato il cammino da seguire riguardo a questo enorme Continente così vario, dove la presenza cristiana è minoritaria, e cioè che il Terzo millennio deve guardare all’Asia e all’annuncio del Vangelo in questo Continente. Ritengo che questo sia ancora profondamente valido e deve ispirare il nostro servizio, sia a livello organizzativo che di impegno sul piano culturale, della conoscenza, delle relazioni e del Vangelo. L’evangelizzazione, come dice Papa Francesco, va fatta attraverso due grandi gambe: mediante l’annunzio vero del Vangelo, che è primario, e al tempo stesso con la testimonianza, il contatto. Nel contatto, infatti, testimoniamo ciò che siamo».
Si è da poco concluso l’Anno Santo della Misericordia. Cosa l’ha colpita di più di questo Giubileo?  
«Due aspetti. Da una parte, il fatto con cui Papa Francesco ha riportato al centro e al cuore di tutta la Chiesa la misericordia, come elemento qualificante della fede. L’altro elemento riguarda come questa misericordia si fa prossima, e cioè il modo in cui il Santo Padre lo ha interpretato sia come persona che come sacerdote e vescovo. Ciò ha colpito moltissimo i fedeli e dovunque vado noto uno sviluppo enorme di questa dimensione: non di un’opera sociale da fare, ma di un amore che è misericordioso e si occupa degli altri».Una parola di sintesi sulla Chiesa oggi.  
«Per quel che mi riguarda, devo dire che nel grande piano della Provvidenza, come c’è stato un periodo in cui la Chiesa cosiddetta Occidentale ha avuto un ruolo preminente in tutti i campi - culturale, teologico, filosofico, umano, sociale, aspetti che ancora oggi permangono, pur se in maniera numericamente ridotta -, così ci troviamo oggi finalmente integrati in una realtà vivissima espressa dalle Chiese africana, asiatica, dell’Oceania, dell’America latina. Grazie a Dio, abbiamo oggi una visione di Chiesa più globale. Mi piace pensare a quella bella immagine che ritrae Papa Giovanni XXIII con il mappamondo, e credere che mentre lo muovesse guardava quasi in prospettiva una Chiesa diventata globale, non più ferma in un continente o in un luogo particolare della terra. Ecco la Chiesa che vedo oggi, aperta in tutta la sua ricchezza a tutti i popoli di tutti i continenti». 

Originario di Manduria, in Puglia, nel Sud dell’Italia, il Cardinale Fernando Filoni ha ricevuto la consacrazione episcopale da San Giovanni Paolo II il 19 marzo 2011, mentre Benedetto XVI lo ha creato cardinale il 18 febbraio 2012. È stato Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, Nunzio apostolico nelle Filippine, quindi in Giordania e in Iraq. Papa Francesco lo ha scelto come inviato personale proprio in Iraq nel 2014, dopo la grave situazione creatasi a seguito della proclamazione dello Stato islamico. Nel 2015 ha pubblicato «La Chiesa in Iraq», edito dalla Libreria Editrice Vaticana